martedì 2 agosto 2022

Dieu se cache


Musica Consigliata: True Love Waits

Una lunga attesa ha accompagnato la conclusione della prima fase della nostra vita. Nomadi, smarriti, ambulanti, sconfortati, speranzosi in un via vai adriatico del quale ricorderemo il calore asfissiante degli asfalti e il poetico luccichio sulle acque scatenato dal timido sorgere di ogni alba ad Est. Sospesi tra Romagna, Marche e Puglia, ospiti temporanei di Abruzzo e Molise ad ogni traversata. Cittadini onorari dell'A14. Viaggiatori e migranti premium di Trenitalia, Marinobus, Flixbus, Bla Bla Car e pendolari vari. Negli anni ho imparato che tutto ciò che mi interessava risiedeva nei dettagli e nei contrasti, ma soprattutto nelle cose celate, quelle che richiedono attenzione ed interpretazione. Negli anni ho visto scivolare il mio tempo e per quanto ami il controllo delle cose, le cose più importanti venivano puntualmente ritardate. Negli anni ho chiesto la presenza di Dio, il suo manifestarsi dove ne avevo bisogno. Ma Dio, sia esso un verbo, un fiume, un albero, un Crocifisso, è sempre un artista. E come ogni artista, se non provoca, se non affonda, se non nasconde i suoi veri messaggi, probabilmente artista non è. Non è Dio. Se Dio fosse disponibile ad ogni chiamata, la Fede sarebbe un banale interruttore. Ma Dio è il clochard scalzo che incontri dopo aver comprato un paio di scarpe in morbida pelle, è quel germoglio che spunta da un albero sfinito dalla siccità, è quel bambino silenzioso perso in un angolo mentre tutti gli altri schiamazzano felici in un festoso girotondo. Dio nella mia vita si è sempre nascosto, nella splendida famiglia che mi ha allevato, nella donna che sarebbe arrivata, nelle fortune che solo dopo anni sono state riconosciute come tali. La frase ricorrente in questi lunghi mesi, dopo aver comunicato una gravidanza gemellare alle persone care, è stata sempre la stessa: “così vi togliete il pensiero”, in una locuzione profondamente intrisa di lingua e cultura meridionale riservata a chi è avanti negli anni, a chi rischia di non avere figli, a chi rischia di avere un solo figlio, a chi rischia di non poter assaporare la bellezza di entrambi i sessi splendere nella propria abitazione. E mentre agli occhi degli altri stavamo gradualmente eliminando un pensiero, Dio ai nostri occhi iniziava a manifestarsi, catapultandoci nel buio degli studi ginecologici per esplorare in mistico silenzio due sacche che avrebbero riempito la nostra vita. Come pellegrini in cammino verso una meta disposti a raccogliere l’essenziale in due contenitori informi per garantirsi la realizzazione nell’esistenza terrena e la vita eterna. Esattamente quello che un figlio può rappresentare per un genitore.

Quello che ho imparato dalla gravidanza è che resta uno dei pochi momenti in cui l’essere umano torna alla sua natura animale, un corpo che si trasforma per accoglierne un altro, una crescita graduale di materiale biologico per creare le condizioni ottimali di crescita e di massima protezione. Bicoriale e biamniotica sono parole che hanno popolato la mia mente per nove lunghi mesi, mentre nessuna ecografia restituiva la dimensione di quei corpi fluttuanti che si sviluppava nella mia immaginazione. Un mondo che non vivrete mai più, un mondo di frequenze spaziali, un mondo musicale dove il vostro cuore pulsava al ritmo di 160 bpm. E mentre loro concertavano, tu ti affaticavi giorno dopo giorno, ma con quel sorriso che solo chi sta per diventare madre può riservare al mondo intero. Il sorriso di chi ha scelto di procreare e di dare continuità alle leggi dell’universo.

La gravidanza non è una malattia, ma neanche una passeggiata. La gravidanza è un tempo lungo, ma anche un’esplosione di sentimenti e di dolori che può essere ricondotta a pochi attimi. La gravidanza sono il pianto per i piedi che non puoi più lavare autonomamente, l’ombelico che scompare dal tuo campo visivo, le macchie diffuse, il passo lento, il prurito devastante che ti spingerebbe a strapparti la pelle. L’orticaria, il diabete gestazionale, l’herpes gestationis, gli integratori, i liquidi, la compressione toracica, il gonfiore. La gravidanza sono due creature che giocano in acqua e che ogni tanto bucano la sfericità del ventre, come talpe che scavano troppo in superficie e finiscono per farsi riconoscere dai predatori. La gravidanza sono quei capelli bianchi che decidi di non tingere, quella scarpa bianca che avresti voluto indossare per la festa e che resterà nelle scatole delle prossime stagioni. La gravidanza è un olio serale massaggiato sul ventre per paura che le smagliature possano restare come tracce indelebili dei nove mesi di gestazione. E tu che ogni sera mi ripetevi “che buon profumo ha quest’olio”, mentre appiattivamo gli affanni del giorno e parlavamo un po’ di noi in un rito notturno a luce fioca. E tu, lentamente, chiudevi gli occhi per dare spazio e forma al sogno, costruendo tridimensionalmente i volti dei tuoi giovani ospiti e lasciandoti andare a qualche piccola smorfia di sorriso frutto di veloci incontri pre-natali. La gravidanza non è una malattia e non è una passeggiata. La gravidanza è la prima grande rinuncia a ciò che eravamo.

Grazie per aver protetto questi mesi dal delirio social, per non aver accompagnato foto di pance con citazioni illustri pescate a caso dal web, per non aver chiesto album fotografici in stile tardo-melodico in riva al mare, per aver conservato l’intimità di una gestazione e il dialogo tra te e le creature senza che questo divenisse di pubblico dominio solo per alimentare un po’ di autostima e raccogliere pollici qua e là. Grazie per aver deciso di far parte di quella schiera di donne silenziose che custodiscono, come si custodiscono gli affetti veri, le cose realmente preziose e i sogni più grandi. Grazie per aver lavorato fino all’ultimo giorno possibile, senza ricorrere a miseri sotterfugi per sospendere la propria occupazione. Nonostante avessi tutte le carte in regola per farlo. E per aver onorato i tuoi doveri con una pancia che giorno dopo giorno ti allontanava dalla tastiera e tendeva il filo delle cuffie. Perché lavoro e diritti sono sacri fino a quando non ne si abusa, in un eccesso o nell’altro.

Quando si diventa padre è come se in tanti focalizzassero improvvisamente il centro delle loro attenzioni sui figli, dimenticando chi li ha generati. Un figlio è per sempre, ho spesso sentito affermare. Come se invece le compagne fossero a tempo. Il tempo di regalarci un erede e poi si vedrà, dipende da come andranno le cose. Spesso, in un trionfo di tenerezza, mi chiedevi se ti avrei desiderato ancora dopo questi nove mesi, con quella voce rotta dalla triste constatazione che ogni curva stesse perdendo la sua naturale posizione e dimensione. Mi provocavi buffamente interrogandomi sulla possibilità di fuggire con una ragazza più giovane. Se una volta consegnati i due pacchetti, tornando a casa, avrei consegnato al mondo una madre dimenticando di avere accanto una donna. La gravidanza non ci insegna a diventare dei bravi genitori, ma dovrebbe insegnarci almeno a rispettare la donna più di quanto ogni madre abbia insegnato ai suoi figli. La gravidanza non è il trionfo della vita, ma la costruzione di una famiglia. Mettere al mondo, partorire, dare alla luce, generare, sono azioni senza particolari responsabilità. Conservare lo stato fisico e mentale affinché tutto ciò diventi miracolo di sopravvivenza, ne richiede e tante. Ed è in questo che chiederemo l’aiuto di chi ci circonda. Un essere amato sarà sempre un essere felice.

Oggi sono nati Anna ed Ernesto. Non sono la nostra vita, non sono il nostro miglior progetto. Non sono la nostra speranza e il nostro futuro. Non c’è errore più grande dell’affidare loro quello che non siamo stati o che non siamo riusciti ad essere. Sono due esseri liberi che meritavano un’opportunità, meritavano di esistere e di farsi largo nel mondo. Perché la verità è da miliardi di anni farsi largo in quello spazio di tempo che ci viene concesso. Sono belli come sono belli tutti i bambini del mondo, impareranno a cancellare i confini e non conosceranno le differenze di colore, razza e religione. Saranno giovani Europei. I loro nomi, non a caso, si originano per vocale, la “A” che tutto apre e la “E” che tutto congiunge. Anna ed Ernesto sono nomi che appartengono alla nostra famiglia, che rappresentano il più grande diario della storia contro l’orrore umano e i diari in motocicletta di giovani vite alla conquista della loro missione nel mondo. Che la scrittura, l’ottimismo e la rivoluzione delle cose siano parte integrante delle vostre esistenze. Siete nati nel giorno della Strage di Bologna. Nel centenario della resistenza pugliese all’assalto fascista alla Camera del Lavoro di Bari. Nel giorno del Perdono di Assisi. Violenza, Resistenza, Perdono. Uno spaccato di società contemporanea e gli unici rimedi per affrontarla. Siete nati in un giorno di cicale, anticiclone africano, cielo azzurro e nuvole solitarie come quelle che da sempre popolano i disegni dei bambini. E che mi stupiscono ancora dal sesto piano di un grande ospedale, che accoglie e spegne vite con una regolarità disarmante. In un giorno di novena in una contrada che vi aspetta. In un giorno di luce in masseria con Frinkina pronta a conoscere i suoi compagni di gioco. Gallana e Zacchieri, i vostri luoghi del cuore.

Dedichiamo la loro nascita a tutti coloro che non possono avere figli. A coloro che hanno adottato i loro bambini per restituirgli un’esistenza. Alle madri che partoriscono da sole in un silenzio atroce mentre la coscienza di padri sconosciuti dorme serena altrove. A coloro che hanno intercettato per tempo la mancanza di istinto materno e paterno e preferiscono una sigaretta sul balcone ad un interminabile pianto notturno. Alle persone che con le loro storie di gravidanza hanno aperto il nostro cuore per prepararci alla genitorialità, senza farsi vittime nelle difficoltà e senza affrontare tutto con lesiva superficialità. A tutti i bambini che nasceranno in questo anno, affinchè siano una generazione responsabile, felice e costruttiva, capace di invertire questa drammatica corsa al consumo e alla ricerca delle performance. Ad Anna ed Ernesto dedichiamo le parole di Fernando Manno affinchè siano amanti e custodi della loro terra natia, “amanuensi di quanto nei secoli è nostro per transito umano, da prima che nascessimo e nelle generazioni dei figli, nostro da sempre e per un attimo nel tempo fra gli ulivi dal quale venimmo. Al quale, ammaliati di vita, morendo ci riconsegneremo”.

Perché in fin dei conti l’amore vero non è fatto di carati che brillano sul petto, non è ringozzarsi nei bouffet delle crociere. L’amore vero è nelle lacrime che precedono l’ingresso in sala parto, dove tutto esplode e tutto miracolosamente si rigenera. In quella mano appena sfiorata per dirsi “andrà tutto bene”. In quel maestrale della sera prima che urla sulle coste dell’Adriatico per anticipare l’immutabile cambiamento dopo anni dedicati al nostro “io”, alle nostre occupazioni, ai nostri viaggi, alle nostre carriere e alla nostra ricerca di stabilità. Nel fruscio degli alberi di ulivo che anticipano a rondini, lucertole, volpi, civette, carrubi, mandorli e querce l’arrivo di due cuccioli nella lunga, interminabile Puglia intrisa di bellezza. Nessuno squillo di tromba per re e principesse, ma il più grande concerto di suoni e di voci dell’estate salentina per accogliere due piccoli cuori che battono. L’amore vero è in una pausa merenda nella fatica di un trasloco, con il pancione compresso tra un cartone e l’altro a mangiare patatine su pavimenti ricoperti di polvere. Un po’ come cantano i Radiohead nel brano che introduce questa narrazione. 

L’amore vero aspetta, sempre. E a Dio piace nascondersi.

 A volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane” (Italo Calvino)


sabato 7 agosto 2021

Consummatum Est


Musica consigliata
: Monumentale, Baustelle

La deforestazione dovrebbe essere trattata come un crimine contro l’umanità, e punita di conseguenza” (Stefano Mancuso).

Il 26 Aprile dell’anno del Signore 2021 abbiamo autorizzato il trapianto delle marze ai pazienti vegetali terminali di contrada Gallana. 68 alberi monumentali disposti liberamente in una “chiantata”, liberi di crescere nei secoli, in totale equilibrio e accordo con l’uomo affinchè ne sfruttasse i benefici senza alterarne o inquinarne lo spazio vitale. Chi conosce contrada Gallana, chi ha abitato queste terre negli anni, ne ha sempre riconosciuto la bellezza intrinseca dei luoghi. Terre fertili, falde acquifere così ricche da spingere in alcune stagioni l’oro blu in superficie, eleganti querce ad incorniciare sentieri sterrati, azioni antropiche ridotte a qualche recinzione fuori luogo o a tentativi di cementificazione bloccati per tempo. E ulivi. Tanti. Tantissimi. Il nostro immenso bosco coltivato. Il nostro orgoglio “monumentale”. Presidiato da secoli da una chiesetta medievale, cuore pulsante di una comunità orgogliosa e fortunata a poter coltivare e abitare piccoli appezzamenti in questa zona. Chiunque, oggi, nell’era della rivincita del turismo rurale, desidererebbe vivere la sacralità di queste terre, villeggiare dove l’uomo ha trovato il suo paradiso in terra fino al XX secolo, dove si sono alternate intere generazioni, dove qualcosa di importante è sempre stato se si battezzava in una chiesa di campagna a tre navate totalmente affrescata, se i pellegrinaggi verso la Terra Santa e gli scambi commerciali dell’Appia antica passavano da queste parti, se il rito delle cientu cruci è scolpito nell’anima della gente. Gallana non è una semplice contrada, è uno spaccato della storia pugliese e una perfetta rappresentazione delle sue peculiarità paesaggistiche.

La Xylella, senza bussare, è arrivata anche qui. Sapevo che questi alberi avevano una tempra superiore, infatti in molti casi hanno resistito più degli altri. Ma la condanna a morte è stata scritta anche per loro, è una questione di mesi, se non di settimane in alcuni casi. Non è la piana degli ulivi secolari con vista mare, è un angolo di Puglia nascosto senza masserie d’élite con piscina o ricostruzioni artificiali di borghi mai esistiti. Ma è la vera anima di questa regione. Dimenticata.

Cosa accadrà? Cosa ne sarà di queste terre? Innanzitutto assisteremo ad una graduale riduzione di CO2 assorbita con conseguente aumento di CO2 libera in atmosfera, amplificazione dell’effetto serra, aumento delle temperature. Se è vero che ogni ulivo assorbe in media 9,542 tonnellate di CO2 all’anno, per il solo terreno che mi riguarda nei prossimi 20 anni gli ulivi di contrada Gallana non contribuiranno a trattenere circa 13000 tonnellate di CO2 che resteranno inevitabilmente in atmosfera. Non servono menti eccelse per moltiplicare questi numeri e rilevare la drammaticità dei potenziali effetti, sia a livello locale che globale. Assisteremo a fenomeni di desertificazione. Le aree a bosco, infatti, durante il giorno si riscaldano più lentamente, il calore assorbito dal terreno viene invece rilasciato più lentamente. L’ombra delle chiome e il fenomeno di evapotraspirazione riducono le temperature estive fino a 9 gradi. Un albero, in determinate condizioni, può traspirare infine fino a 400 litri d’acqua, numeri che possono competere con 20 condizionatori accesi contemporaneamente. Questa assenza renderà meno netta la differenza di temperatura tra le aree rurali e la città, sempre più alle prese con l’effetto isola di calore.

Come se non bastasse, oltre all’aumento di CO2, alla riduzione di ossigeno e alla cattura di polveri sottili, assisteremo ad una progressiva perdita di biodiversità. Nel giro di pochi anni elimineremo strutture e dimore vegetali in grado di assicurare vita e riparo a piccoli invertebrati, insetti, roditori, rettili e uccelli, così come al nostro bel paffuto muschio verde che sorrideva a Nord (comunque in via di estinzione nei nostri presepi a causa del suo omonimo sbiadito esemplare artificiale di Taiwan). Non sappiamo in quali luoghi i nostri animali proveranno a sopravvivere, sappiamo per certo che saranno sempre più rare la loro compagnia e il loro canto nelle nostre estati mediterranee.

Il paesaggio, infine. Anche ipotizzando una immediata e massiccia rigenerazione agricola, l’ecosistema sarà compromesso per sempre. La Puglia d’amare, il Salento del boom turistico, la “Regione più bella del mondo secondo il National…” dovrà fare i conti con uno sconquasso che non lascerà indifferenti. E solo allora ci renderemo conto che la nostra terra non è solo il mare, che andava contrastata la demenza di coloro che scrivono 46 agosto (fieri di poter fare l’ennesimo bagno a 40° il 16 settembre, come se una Puglia bruciata per settimane dal sole fosse motivo di vanto, come se le piogge fossero un disturbo, come se la sete fosse sempre calmierata da bacini limitrofi che si autoalimentano magicamente), che i pugliesi veri erano quelli che aravano minuziosamente la terra rossa per favorire quei contrasti di rosso-verde-blu che sono i veri colori del nostro habitat. Le nostre sconfitte non arrivano solo da lontano. Ogni fenomeno di impoverimento ha diverse concause, migliaia di genitori hanno indirizzato diversamente le proprie pratiche educative se nella formazione dei propri figli l’ulivo è poco più di un oggetto da set fotografico e non parte essenziale della nostra esistenza. Basta vedere quanti bambini saranno fotografati nell’ultimo abbraccio ad un albero a rischio eradicazione rispetto a coloro che saranno inquadrati nelle storie di fb, vestiti di tutto punto con sneaker plasticose ai piedi e fontane di fiammelle a sciogliere stampe digitali commestibili. I miei nonni, grazie agli ulivi, hanno contribuito a far laureare i loro figli. È vero, probabilmente non hanno mai ricevuto schiaffi dal mercato come un quintale di olive acquistato a 10,00 euro. Ma le stagioni agricole non hanno mai garantito la certezza delle produzioni e sono sempre state a rischio agenti atmosferici, estremi e non. Ora intere generazioni non conoscono neanche i confini delle terre ereditate, figuriamoci se sono in grado di curarle, ripulirle o coltivarle. Siamo tutti dannatamente concentrati sui servizi, ma l’anima naturalistica e produttiva della nostra terra è stata svenduta nel nome di una graduale annichilimento delle professioni del bracciante e del coltivatore diretto. Se oggi le nostre terre sono ancora popolate di alberi plurisecolari, è perché qualcuno le ha coltivate, rendendo di fatto impossibile ogni forma di annientamento diretto o indiretto come roghi, estirpazioni selvagge o calamità varie. Va ricordato, infine, che ville e terreni senza alberi perdono il loro valore di mercato, divenendo oggetto di pericolosissime speculazioni o indirizzando altrove gli interessi degli investitori. A chi interessa soggiornare in un’abitazione rurale salentina senza ulivi? Le contorte gibbosità degli ulivi, agli occhi attenti di progettisti sensibili, hanno un valore altissimo in quella disciplina che classifichiamo come “garden design”. Nulla a che vedere con l’anonimato formale di alcune piante esotiche importate in area mediterranea alla ricerca di soluzioni verdi per differenziarsi dall’erba del vicino.

Cosa sarà di questi innesti? Gli innesti sono tentativi disperati, prove di coraggio, manifestazioni di gratitudine. Chi non darebbe acqua ad un viandante assetato? Chi non farebbe l’ultimo viaggio della speranza per allungare la vita di un proprio caro? L’innesto potrebbe morire, potrebbe essere soffocato in uno slancio vegetativo della cultivar originale, potrebbe essere attaccato da insetti e parassiti. L’innesto potrebbe avere vita molto breve, ma tiene acceso un lumicino, la piccola fiamma di chi non si rassegna, di chi riproduce musica nei pressi di un paziente in stato comatoso con la speranza che la stimolazione neurale possa contribuire al suo risveglio. Alla domanda se innestare o meno, la maggior parte delle persone con le quali ho avuto il piacere o il dispiacere di conversare, ha risposto che anche a fronte di un albero salvato, non avrebbero fruttificato più come una volta, sarebbero rimasti ruderi improduttivi sui quali impegnarsi per una costosa manutenzione ad oltranza. Il popolo degli olivicoltori, gli ultimi discendenti della cultura dell’ulivo, hanno iniziato a decretare la morte dei loro fidati alberi nel momento in cui hanno iniziato a pensare che, in fin dei conti, questi singoli meravigliosi ecosistemi non valessero più di tanto. Ecco, è tutta qui la risposta della nostra anima contadina del XXI secolo. Se non produce, non mi serve.

Nasce quindi spontanea l’ultima riflessione. Se l’ulivo non produce, se un tappeto infinito di chiome non genera più quel senso di appartenenza tipicamente pugliese, se abbiamo perso anche l’ultima poesia che una libera ramificazione oppone ad una insensata siepe pronta per essere scossa dalla meccanica di ultima generazione, non ci sarà resistenza che tenga. Se anche il vecchio contadino (padre adottivo, figlio e spesso amante di quel trionfo ligneo di torsioni) sposa il detto che carmina non dant panem, diamo il benvenuto alla nostra fine. O all’inizio di qualcun altro che avrà fiutato le infinite opportunità vitali della mors tua

Quindi lascia perdere i dibattiti, la rete, i palinsesti, per un giorno non studiare, non chattare, ma piuttosto stringi forte chi ti ama” (Baustelle).

E la politica? La politica, semplicemente, non c’è stata. La politica ha osservato a distanza, fingendo forti dispiaceri rispetto alla consapevolezza del concorso di colpa per questo misero lascito alle future generazioni. La politica non ha mai letto Stefano Mancuso e la sua “La Nazione delle Piante”. La politica non ha la cultura dell’albero. La politica oggi gira la Puglia in camicia di lino e fa i talk a bordo piscina argomentando le possibili future alleanze. La politica non si è mai messa a conversare con un contadino all’ombra di questi monumenti. La politica, oggi, ha scelto prevalentemente i ristori. Come se 100,00 euro ad albero fossero la giusta ricompensa per chi ha perso tutto ciò che aveva, dall’ossigeno, alle macchine, all’idea di un autunno operoso, alla moneta per andare avanti. La politica ha assistito all’evolversi degli eventi, un po’ come coloro che assistono ad un rally a bordo strada, consapevoli che alla prima sbandata la vita e quindi l’intero equilibrio regionale sarebbe andato in tilt. Nei cartelloni estivi dei nostri comuni, mentre fuori si consuma la più grande tragedia del nostro territorio, nessuno spazio dedicato all’analisi del presente e allo sviluppo di nuove strategie per ripensare un territorio sul cui suolo giocheremo la conservazione della nostra stessa specie. La Xylella disturba, non attrae, parlare di Xylella fa male. È lo stesso trattamento che riserviamo ai nostri conoscenti gravemente ammalati: per paura di ritrovarci senza parole o di suscitare sentimenti pietosi, evitiamo persino di andare a trovarli. Non siamo gli unici ad aver subito epidemie di questo tipo, ma la nostra reazione è davvero confusa, isolata, carica di rassegnazione. Oltre a snobbare i successi altrui, siamo diventati bravi a sotterrare anche i nostri fallimenti.

Consummatum Est è lo scatto che voglio lasciare ai figli di questa città. Un Cristo crocifisso dallo sguardo mesto, coronato da un cappuccio nel quale sono state appena innestate come spine marze di Leccino. Un punto di vista alternativo sulla Passione degli ulivi di Puglia. Un albero che diventa Cristo, senza altari e senza fiori, in un cielo plumbeo come fossero le tre sul Gòlgota. Questo albero sarà il simbolo di un’epoca che finisce, del nostro fallimento più grande, di una eredità che abbiamo consumato e dilapidato per fare spazio al regno delle motoseghe, allo sfruttamento agricolo intensivo, alla cancellazione di un paesaggio. Abbiamo sbagliato tutto, abbiamo sbagliato tutti.

"Pensiamo sempre troppo poco a quanto il paesaggio educhi lo sguardo, determini la geometria del pensiero. Fa di noi ciò che siamo, e magari più delle cose studiate, dei libri letti". (Paolo di Paolo, a proposito di “Pianura” di Marco Belpoliti).

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In questi anni ho selezionato 100 parole che hanno cambiato la Puglia. Mi piacerebbe dialogare con scuole, insegnanti e studenti interessati a conoscere e rappresentare passo dopo passo questo lungo e tormentato addio.

Un grazie speciale alle persone che hanno suggerito, supportato e innestato con amore gli ulivi di contrada Gallana: Enrico Pignatelli, Francesco Pignatelli, Davide Pignatelli, Vincenzo Lodeserto, Angelo De Michele.


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domenica 1 novembre 2020

Il portafogli di Noci


Tremo in pieno giugno. Nel massimo della luce, nel caldo che avanza inesorabile. Tremo per le vibrazioni di questo calesse che corre verso la contrada della Madonna della Scala. Tremo, anche se non sono solo. Può un uomo tremare all’idea di incontrare colei che probabilmente sarà la donna della sua vita? Può una vita di affanni e di sacrifici non aver ancora insegnato che i timori sono ben altri e che un vero sentimento non potrà mai essere fonte di paura? Non ho mai tremato nella mia esistenza, neanche durante le notti trascorse carico di merci nel silenzio della Murgia. Eppure il mio corpo si muove e non riesco a controllarlo. Tremo all’idea di vederti. Di conoscerti. Di guardarti al cospetto di tuo padre. Il mio amico, l’uomo della combinazione di un matrimonio non combinato è al mio fianco. Striglia la bestia e fischia un motivetto. Ma non parla. Noci alle mie spalle, vado a prelevare il mio futuro in una grande masseria. Ti ho scelto Elisabetta e vengo a prenderti. Tu sei benestante. Io sono nel commercio. E il commercio, si sa, viene e va. Tu sei più ricca di me. E questo tuo padre lo sa bene. Ma non avrò altre occasioni e non posso giocare male le mie carte. Carte, ecco. Non avevo alternative. Simulare qualcosa che non ho. Così ho riempito il portafogli di carte, lasciando gli ultimi giri alle banconote. E più si gonfiava, più riempivo. Perché non potevo sfigurare. E quando fu pieno fino a scoppiare di nulla, lo infilai nel gilet e attesi il cavallo del mio intermediario. Ora sono qui con lui e proteggo con la mano il portafogli dagli urti e dagli sbalzi prodotti da questa strada sterrata.

La famiglia De Marinis mi accoglie nella sala più grande. Al primo piano. Anche loro desiderano distinguersi per opulenza nel giorno in cui il primo corteggiatore chiederà la mano della sedicenne. Elisabetta è la protagonista, eppure è seduta mestamente nel posto più lontano, come se qualcuno volesse proteggere fino all’ultimo istante la sua purezza dal primo maschio autorizzato a varcare quel confine per lei. Chissà se un giorno, per amare una donna, i nostri figli saranno risparmiati da questa messa in scena e dall’obbligo di proporsi di fronte a un pubblico di parenti e conoscenti pronto a scrutarti nelle tasche e nei calzini, a intercettare e valutare ogni tua smorfia e movimento. Ma in realtà sono ben accolto e faccio del mio meglio per sembrare quello che in realtà credo di essere: un uomo onesto. Il padre di Elisabetta ha adocchiato fin da subito quel dosso di tessuto che non luccica, ma che modella la mia giacca a sinistra e lascia immaginare una posizione economica degna di quella mano. Il portafogli riempito di carte ha fatto il suo dovere. Se non mi si chiederà di aprirlo, non passerò per poveraccio ed Elisabetta sarà più vicina. In caso contrario uscirò da questo palco con la coda tra le gambe. E la mia reputazione in paese potrebbe essere compromessa per sempre.

Ma se un uomo non rischia per amore, per quale altra cosa al mondo val la pena rischiare? Io rischio per te Elisabetta. Per portarti via con me. Si parla, qualcuno ride, il clima è disteso. Non ho mai visto ceste così grandi, pullulanti di taralli e caciocavallo stesi su teli bianchi di cotone che profumano di cenere. In masseria non hanno bisogno di carte per mostrare il ben di Dio di cui si gode ogni giorno, nonostante la miseria che affama queste terre pietrose. Il clima è gioviale, è come se la mia convocazione fosse stata un semplice pretesto per festeggiare la luce di giugno, l’ottimo raccolto, la salute che regna in questo fortino agricolo. Ma lo è per gli altri, almeno fino a quando l’uomo di casa non si pronuncerà. Visto che Elisabetta tutto può, tranne che esprimersi e decidere se sarò o meno io l’uomo che per primo accarezzerà sotto le lenzuola.

Il padre mi osserva. Sa tutto di me. Dei miei commerci di legumi. Non ha bisogno di una sola parola in più sul mio conto. Probabilmente sa anche che il portafogli non contiene realmente tutti quei valori. Molti fogli, appunto, e poche lire. Ma quest’uomo sa anche che l’onestà vale più di ogni ricchezza e che non sarà il solo denaro a garantire un futuro di serenità all’amata Elisabetta. Ci guardiamo. Senza sfidarci. Con grande rispetto. Tocca a lui perdere una figlia, è giusto che prenda tutto il tempo necessario. Alla fine acconsente e non desidera prove. Lentamente sale una lieta e graduale approvazione della corte. E una splendida luce arancione trapassa i ricami delle tende in cotone della sala dove tenni il mio primo processo e fui assolto. Rientrai alli Nusce fiero di aver rischiato. Ero innamorato. Di giugno. Di Noci. Della vita. Di Elisabetta.

Domenico Laforgia ed Elisabetta De Marinis si sono sposati alla fine dell’800. Elisabetta è stata l’unica figlia ad abitare in paese. Gli altri hanno continuato le loro vite nelle campagne della zona. Il portafogli di Domenico è ora conservato da una nipote nella città di Fasano. Capiente, morbido, profuma ancora di vitello e di quell’inganno studiato a fin di bene. Alcune settimane dopo la proposta di nozze, Domenico fece un buon affare ed ebbe denaro a sufficienza per regalare un cappotto di pelliccia alla futura moglie. Quel gesto confermò che era realmente benestante e rassicurò ulteriormente il padre di Elisabetta. Vissero felici nel cuore della Murgia. 

“Ho aspettato con grande ansia il solstizio d’estate e ora che la terra si inchina (veramente si raddrizza dopo l’inchino) verso il sole, sono più contento” (A. Gramsci)

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mercoledì 7 agosto 2019

E come cercherai quello che tu ignori pienamente?


Musica consigliata: Ain't GotNo, I Got Life - Nina Simone

Esistono cose che non puoi nascondere. Come l’aver mangiato asparagi mentre scorre l’urina in un bagno condiviso con un’altra persona. Così, nel giorno del mio quarantesimo compleanno, sento di non poter nascondere un personale bisogno di certezze, di fondamenta, di capisaldi, di paletti, di pietre miliari, di torri di avvistamento. Di sentimenti, umori e opinioni capaci di resistere al tempo e alla società che li aggredisce con una velocità non più controllabile. Per quanto cambiare sia fisiologico per la sopravvivenza, azzerare significa non riconoscere quanto di buono fatto finora e continuare a crescere come pini ormai inesorabilmente piegati dalle folate dei venti marini.

Allora, in un giorno così apparentemente importante, ho deciso di regalarmi un pacchetto di certezze. Un po' di buona musica, nient’altro. Quelle canzoni che ascolti senza interruzione in un puerile costante rewind, quelle che qualcuno ti ha insegnato ad amare, quelle che hai scoperto da solo in un giorno di autostrada, quelle che qualche bravo speaker radiofonico ha lavorato così bene con le parole da fartene apprezzare l’ispirazione più che l’esecuzione. Quaranta cover. Le canzoni originali sono le certezze, le cover il modo migliore per riportarle in auge, interpretandone nuovamente la potenza musicale e narrativa. Un invito a coverizzare il buono della nostra vita, i momenti in cui ci siamo piaciuti di più, in cui abbiamo apprezzato il nostro ruolo nel mondo, in cui siamo stati interpreti di un copione individuale, familiare e sociale condiviso e non imposto. Quaranta canzoni per sognare e per tornare ad essere rivoluzionari, senza farsi calpestare dagli eventi. Quaranta canzoni per morire di malinconia al tramonto o per accettare secchiate d’acqua durante una corsa sotto il primo temporale settembrino in una mulattiera bordata di more. Quaranta canzoni per vivere, perché la musica a volte ci salva la vita e ci aiuta a viaggiare dove, nella depressione latente della quotidianità, non saremmo mai in grado di arrivare. Quaranta canzoni da lasciare a chi verrà, come testimoni in una podistica di periferia o come antinfiammatori in borsa dopo la cura dal dentista.

Mi sembra di aver vissuto quattro vite. Di aver realizzato tutto e niente. Di essere caduto troppe volte e di aver allo stesso tempo mascherato egregiamente ogni segnale di disagio. In fin dei conti, per quanto abbia sempre elogiato il valore dell’imperfezione o tutelato il limite che ogni essere umano porta con sé in saccoccia, la vita non accetta passi falsi. Siamo sempre sospesi tra ascolto e menefreghismo, tra difesa dei diritti altrui e slanci di egoismo per restare al passo, fisico, professionale ed economico. Non avremmo il botox, le lauree comprate o un indebitamento progressivo se ognuno accettasse se stesso nei confini dei propri piccoli ma genuini traguardi. E questo non significa che bisogna massacrare le ambizioni, ma evitare di corromperle sì.

Ai miei quarant’anni ho voluto associare due scatti fotografici, appartengono al passato ma restano per me preziosi nel loro significato. Un colloquio tra donne nell’atmosfera rarefatta di un centro termale. Un confronto frontale di una potenza difficile da descrivere, sfociato nel pianto della donna più forte, arresasi di fronte all’incapacità di garantire una vita dignitosa alla sua creatura. Una donna anziana che, in piena crisi, continua a nascondere al mondo che la circonda tutto il suo malessere, così brava da far passare un fiume di lacrime per una concentrazione di vapori sulfurei da asciugare in viso. E intorno, come se nulla fosse, tutto scorre. È probabilmente una delle mie migliori fotografie.
L’altro scatto è invece un’arancia, un’arancia meccanica. Un frutto dimenticato, modellatosi nel luogo che lo ha accolto fino alla sua scoperta. Questo agrume è sotto attacco, le muffe avanzano sull’emisfero sinistro, ma l’altra metà si difende e resiste. Al centro, quasi inviolata, la sua impronta, il suo timbro, la sua dimensione etica, la sua personalità, una griglia bianca che ricorda il cambio dei trattori di una volta. Così l’uomo, ogni giorno, si ritrova a combattere gli acciacchi del tempo e le circostanze che lo mettono alla prova. Risponde cercando di conservare la sua natura, il suo colore, le sue superfici. Al centro le energie per decelerare e cambiare marcia, in un perenne inspiegabile folle equilibrio.

Non immagino mai dove la vita mi porterà. Né sono bravo a rispettare le previsioni. Menone sapeva bene come mettere in difficoltà il maestro, formulando a Socrate quello che sarebbe stato uno dei paradossi più studiati della storia. “E come cercherai quello che tu ignori pienamente?”, come possiamo indirizzare il nostro futuro se non abbiamo la minima idea di come esso possa manifestarsi? C’è poco da fare, la grandezza di un uomo è soprattutto nelle sue domande, più che nelle sue risposte.

Avrei potuto trascorrere questo giorno in qualsiasi angolo della mia cara Europa o avrei potuto spingermi fuori dai suoi confini per ammirare la bellezza e la devastazione che salvano e attanagliano questo pianeta. Non avrei mai comunque ipotizzato di viverlo sull’appennino romagnolo, in una terra di attraversamenti, perfetta per chi ha il cammino nel sangue. Oggi, sette agosto duemiladiciannove, sono nella terra che diede i natali a Tito Maccio Plauto. E anche questo, per quanto possa sembrare casuale, non è un caso. Da qui, nell’arena plautina di Sarsina, nel cuore di un appennino a me sconosciuto che ha da sempre collegato Roma con la vastità del centro Europa, mi chiedo se avrò ancora la forza di recitare e di interpretare adeguatamente il ruolo che la vita e le situazioni in qualche modo mi hanno assegnato. Ma più di ogni cosa, forse, desidero ringraziare chi mi ha messo al mondo e chi mi ha seguito e accompagnato con grande difficoltà in questa lunga e meravigliosa scalata anagrafica. Perché, come direbbe Plauto stesso, “a parer mio niente è più odioso di un ingrato. È meglio lasciar in libertà un malfattore che lasciare nel dimenticatoio un benefattore”. 



"La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. (Sant’Agostino)

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lunedì 22 aprile 2019

Nel nome della madre


Musica consigliata: Io cammino di notte da sola, Amalia Grè

I chiostri monastici, ne sono certo, sono provvisti di pale rotanti azionate dalla mano invisibile di qualche santo. È praticamente impossibile non avvertire la presenza di una microventilazione, indipendentemente dal periodo dell’anno in cui si faccia visita. Anche in pieno agosto, infatti, in una giornata di afa piatta e torrida, si prova un certo sollievo ad entrare nel primo corridoio del quadrilatero. Questo vento misterioso ti dà il benvenuto e ti accompagna pian piano in quel cammino geometricamente vincolato, sia che tu ti muova sotto copertura, sia nell’attraversamento del giardino. Ma poi rifletto, è normale che l’aria trovi qui un luogo perfetto per divertirsi! In quali altre architetture puoi scendere dall’alto e cimentarti in uno slalom estremo tra decine di colonnine laboriosamente scolpite, oppure farti forzare dai piani superiori dell’edificio e sfondare a valle dopo aver percorso precipitosamente moltitudini di gradini? Non esiste altrove in cui l’aria possa godere di tante possibilità ricreative.

Camminiamo. Soli. Giovanna conosce bene le mie necessità primarie. Una vita tra la gente ti induce a desiderare il silenzio, almeno nel giorno del tuo compleanno. Il modo migliore per festeggiare, in questo giorno, è tornare a parlare con me stesso, senza voci, rumori, auricolari, speaker, call, skype, decolli, arrivi, partenze, urgenze, code, scadenze. Per questo ho deciso di trascorrere spesso il sette agosto camminando solitario per le strade d’Europa, festeggiando a mio modo, chiudendomi a riccio per proteggere un bisogno fisiologico.
Il chiostro di San Benedetto è popolato di arte contemporanea. Nel primo pomeriggio di un’estate pugliese i colori sono a rischio liquefazione, ma il chiostro protegge dall’esposizione diretta ai raggi solari e quel micro vento torna ancora utile per abbassare la temperatura. Una sorta di windchill per la conservazione delle opere pittoriche. Non abbiamo fretta, giriamo e rigiriamo, soffermandoci di fronte ad alcune tele, sorvolando rispetto al contenuto di altre. Questo tipo di arte merita due fasi, quella dell’interpretazione cui segue quella del gradimento. Se non si cura la prima, la seconda non si innesca. Esiste anche una componente tattile, sfiorare la materia aiuta la comprensione. Come il peggiore dei principianti, mi avvicino all’opera e mi lascio tentare da una innocua ditata nei solchi ruvidi del pennello.

Ecco, arriva da lontano. Il guardiano, il generale, il custode, l’inquisitore. Conosco già le mie colpe, non mi resta che scusarmi. Viene senza armi, ammonisce con gli occhi, sfere azzurre tendenti al grigio incapsulate in una pelle rosea, idratata, lucente, viva. Alzo le mani in segno di resa. Ma noi non volevamo solamente scusarci e lei, probabilmente, non desiderava solo riprenderci. Alessandra è la curatrice, ha molto da dirci, passeggiamo tra le opere e da come ne parla più che tele sono pagine del suo diario. Strano che un’artista pugliese abbia dipinto cupe megalopoli, strano che da una regione permeata di luce e ancora caratterizzata da agglomerati di piccole dimensioni, siano arrivate visioni urbanistiche così forti e allarmanti. Il rosso incendia molti quadri, scarichi giganti sversano acque reflue, ecomostri e sopraelevate distruggono il ricordo dell’armonica composizione di piccole architetture, sovrastandole e accogliendo auto tragicamente incolonnate. È come se fosse sempre notte nelle sue immagini, è come se tutto fosse irrimediabilmente inquinato.

Stabiliamo un contatto. Le barriere si sciolgono come colori a olio dimenticati al sole. Ci regala il catalogo della mostra, poi si sofferma sui libri dell’artista. Decido di comprarli in segno di riconoscimento per la sua preziosissima guida. Ci pensa, ma poi rifiuta il denaro. Le scappa una lacrima, come l’aria del chiostro, anche le lacrime sono brave a fuggire prima ancora che il cervello ne comandi l’arresto. La mostra, i libri, le parole, il pomeriggio d’agosto consumato in una cittadina di provincia a parlare con due sconosciuti, ogni ricordo recuperato dal passato, sono azioni per la madre, tutto è nel nome della madre. Le basta sapere che la sua memoria è viva e che giorno dopo giorno il suo nome continua a circolare arrivando a più gente possibile, oltre quello che la vita le ha concesso. Dicono che la procreazione sia la forma d’amore più alta, ma i figli sono allo stesso tempo la forma più alta d’egoismo se servono, come direbbe Stefan Zweig a proposito di libri, “a difendersi dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio”.

Alba Amoruso, artista pugliese, è deceduta a soli 51 anni. Nel suo libro “Lettera d’amore” ha raccontato di come si possa interpretare il mondo dalla finestra di una clinica di Lubiana, mentre la neve scende lenta in una capitale d’Europa e tu agonizzi lentamente al pensiero di quello che potrebbe accadere o cerchi di racimolare qua e là piccole speranze di salvezza. Oggi è il suo compleanno. I pensieri di Alba sono nella nostra libreria, io e Giovanna ci siamo innamorati di un suo quadro e parleremo di lei con cognizione, citandola con entusiasmo quando ne avremo l’occasione. Alessandra Trapanà è riuscita nel suo intento, nel nome della madre. 

"Do you have any regrets? No, everything that has happened in my existence had to happen. I have mainly learnt from the mistakes made in my worst periods, not in the best ones". (Marina Abramović)

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mercoledì 20 dicembre 2017

La leadership è un sopralluogo discreto


Musica consigliata: The Masterplan, Oasis

È stato un anno difficile. Lo riconosco. Uno di quegli anni sui quali si potrebbe cucire, senza riprese sartoriali di alcun tipo, la massima che collega la fortificazione personale alla morte scampata. Non so ancora se dal duemiladiciassette ne uscirò indenne, ma fortificato mi sembra un’ambizione fin troppo eccessiva. Io sono del parere che un cuore salvato da infarto conservi comunque delle necrosi e la sua efficienza, in qualche modo, non sarà mai paragonabile allo stato pre-lesione.

La vera novità, per ricordare il buon Lucio, è che scrivo per distrarmi un po’, per raggomitolare un filo lungo e così intrecciato da perderci la testa, ma allo stesso tempo così ricco di dati, flash, volti, espressioni, alert e consigli da considerarlo patrimonio di vita vissuta.

Viviamo in un’epoca povera di leader. La siccità sembra agevolare la mancata crescita di uomini e donne pronti a farsi carico o abili nel condurre il ruolo di guida, nelle famiglie, nelle imprese, nella politica, in generale nelle società occidentali a me conosciute. Tutti, chi più chi meno, vorrebbero dei leader all’altezza delle situazioni. Grandi sfide necessitano di grandi leader. Le sfide diventano sempre più grandi, i leader sempre più piccoli. La popolazione mondiale ha superato i 7 miliardi, ma se chiedessimo al nostro dirimpettaio in palestra o alla nostra cassiera preferita quanti leader conoscono, sono sicuro che le dita di una mano basterebbero ampiamente. Parallelamente, da molti decenni ormai, si moltiplica l’offerta formativa in materia di sviluppo e rinforzo della leadership, team building, comunicazione, gestione delle risorse, intelligenza emotiva. Un noto libro di un noto mental coach si intitola “Leader di te stesso”. Ho provato a leggerlo in una libreria amica, ma è rimasta una prova.

Ho chiesto quindi al duemiladiciassette qualche risposta, senza che questa mi venisse fornita in maniera del tutto teorica da motivatori di professione, improbabili sette o docenti universitari. Mi sono interrogato a lungo. Ho tenuto gli occhi aperti. Ho cercato le risposte in chi le formulava al mio cospetto. Chi è veramente un leader? Cosa dovrebbe mangiare a colazione un capo per svolgere adeguatamente il suo ruolo? Lavorare sul campo ha agevolato le considerazioni che seguono. Il duemiladiciassette ha sciolto molte prognosi.

Premessa banale, perché immagino non sia né il primo né l’ultimo a farla. Non tutti nascono leader, non tutti vogliono esserlo. Farsi guidare non è automaticamente sinonimo di sentirsi a proprio agio nel gregge o di incapacità a gestire gli altri. Ho sentito molte persone affermare che i ruoli di responsabilità non sono necessariamente quelli più gravosi o quelli che rendono le maggiori soddisfazioni. Esistono società e organizzazioni senza leader, alcune di queste viaggiano a gonfie vele grazie a forme sperimentali di autogoverno. I leader non sono quindi indispensabili. Eppure buona parte delle organizzazioni che regolano la nostra vita sono di natura verticale. Conosciamo perfettamente i ruoli, abusiamo dei titoli che la società ci assegna, ma quasi sempre negli ultimi anni al titolo non si associa più l’autorità necessaria. Nell’epoca dei social network, i leader sono la categoria più bersagliata e se qualche tempo fa (se ti andava male) ti beccavi il disegno delle corna sui manifesti, oggi la tua carriera potrebbe svanire in pochi minuti dietro una sfilza di post su facebook. Un recente articolo di Tom Nichols su Repubblica racconta con estrema lucidità la morte dell’esperto nella piazza virtuale e come fior di tecnici, scienziati e studiosi stiano abbandonando gradualmente le piattaforme on-line.

Chi è, dunque, un leader? È un uomo. Non è un supereroe. Un leader non deve bastare a se stesso. Un leader non ha tutte le risposte. Se un manager è assenteista viene considerato una persona che non merita la posizione assegnatagli, poco produttivo e incapace di monitorare risultati e necessità del suo team. Se un manager va via per ultimo, fa le nottate, dorme in ufficio, viene considerato una persona senza equilibri, che toglie tempo utile a valori molto più grandi come la salute, la famiglia e il tempo libero. Un buon leader dovrebbe quindi bilanciare correttamente la propria esistenza nell’organizzazione, un mix inattaccabile di ferreo attaccamento e distacco leggero dai contesti in cui opera. Fino a qualche anno fa pensavo che ad ogni domanda un leader avrebbe dovuto avere in tasca una risposta. Niente di più illogico. Certo un vero leader non può ribaltare il problema con un insensato contro-quesito del tipo: “Tu che faresti?”. Saremmo nel campo dell’ovvia perplessità e della moltiplicazione dei dubbi del tipo “chi ti ha messo lì, perché dovresti guadagnare più di me, qual è il valore aggiunto della tua direzione…”. Ma un leader, ripeto, non ha tutte le risposte. L’unica cosa che deve imparare è aiutare il proprio collaboratore a condividere una soluzione e a deresponsabilizzarlo di fronte a possibili errori di strategia o decisionali. Un leader ascolta e accompagna, non si sostituisce nella decisione.

Un leader non scredita mai un suo collaboratore. Non crea forti competizioni interne, ma cerca di valorizzare il merito degli altri senza che questo diventi preferenza o migliore trattamento. Nei contesti lavorativi che ho frequentato ho visto presunti leader farsi servire e inviare sms al resto della compagnia ridicolizzando il servitore come fido cagnolino di corte con guinzaglio dorato. Ho visto capi scrivere tutto e il contrario di tutto per mettere tutti contro tutti. Ho visto azzerarsi ogni forma di rispetto reciproco a causa di leader corrotti e senza stile.

Mi piacerebbe, un giorno, scrivere un libro ispirandomi ad un titolo di Garcia Marquez, “La leadership ai tempi del colera”. Come essere al tempo stesso santi e guerrieri in un mondo in crisi, che cambia e che abbatte il costruito al primo cedimento. Dove non si licenziano solo gli uomini, ma soprattutto i valori sui quali dovrebbero essere fondati tutti i rapporti umani e lavorativi. In un forum di giovani volontari del sangue, un ragazzo tempo fa mi chiese cosa fosse per me la leadership. Non seppi rispondere. Se dovessi incontrarlo oggi, gli direi sicuramente che la Leadership è un sopralluogo discreto. Si, un sopralluogo! Un’ispezione dentro se stessi, una pausa per valutare elementi essenziali del proprio percorso in una vita che scorre senza che nessuno riesca realmente a controllarla. Un momento per riflettere e giudicarsi, per tornare sui propri passi prima di allontanarsi definitivamente dalle cose che non quadrano o dalle persone che sembrano ostacolare il nostro decollo. La leadership è un sopralluogo presso i tuoi compagni di vita e di lavoro. Un volo panoramico dall'alto per conoscere e capire gli stati di salute, i sogni, gli investimenti, la festa di compleanno di un figlio, le ambizioni delle persone che ti circondano e ti sollevano nel raggiungimento di un obiettivo collettivo. Un leader non è un cane da guardia, non insedia presidi permanenti presso i propri collaboratori. Un leader non ha tempo da perdere a controllare costantemente il lavoro degli altri. Ogni forma di successo nasce dalla fiducia. Possiamo fallire da soli, ma i successi hanno sempre bisogno dell’aiuto degli altri.

Questo post è dedicato ai miei colleghi della divisione di Design. Ai migliori designer e progettisti di Puglia. Sono loro che hanno ispirato, con l’esempio, i miei pensieri più alti. I miei colleghi sono enormi continenti in cui spaziare, incapaci di essere isole, geologicamente uniti, a volte leader inconsapevoli, in ogni caso sempre uomini in mezzo agli uomini. Mi hanno insegnato l’arte del rispetto e l'inutilità delle mezze verità. Hanno rinunciato alla fuga nel bel mezzo dell’incendio. Dedico loro ciò che penso veramente della loro bellezza. Affinché tutti sappiano. Oggi e per sempre.

Sarah De Cristofaro - Sarah ha le spalle dritte e un bel portamento. Parla a bassa voce, con delicatezza, ma quando è impegnata in una verifica telefonica o in una riunione con un cliente, il suo tono si accende, diventa dinamico, ascolta e ribatte per arrivare subito al dunque, che quasi sempre si rivela il suo dunque. Sarah non fa giri di parole, è schietta, sincera. È il tipico esempio di come una donna possa farsi strada in un contesto da sempre difficile per il sesso femminile come quello delle professioni ingegneristiche. Le donne, almeno qui da noi, sono ancora figlie del magistrale, dovrebbero assistere, curare ed educare, non progettare. Sarah mi ha dato molta forza con il suo esempio, è il lato materno della divisione, di lei apprezzo soprattutto l’ostilità alla rinuncia, non cede e rilancia ogni volta che le si chiede di compiere un dovere fino alla fine o di non calpestare un suo diritto. È una donna che raccoglie in sé il meglio delle qualità femminili e ritengo faccia parte di quella categoria di donne destinate a cambiare il mondo, locale o universale che sia.

Luca Rizzi - Ho conosciuto Luca quasi 10 anni fa. Decise di fare il percorso inverso, da Milano a Brindisi, una scelta di vita coniugata probabilmente con la migliore scelta lavorativa dell’epoca. Lo ricordo come una persona rigida, fortemente inquadrata negli schemi educativi e lavorativi del Nord che il Sud non ha mai realmente digerito. Oggi Luca è il miglior leader che io conosca. Condividiamo scrivanie parallele da molto tempo e per me è come un fratello. Nei periodi peggiori, invece di rivendersi, ha dimostrato un attaccamento al suo lavoro e al contesto che lo ha accolto che ha superato ogni previsione. Talentuoso in tutto ciò che fa, professionale in quello che trasferisce, la sua autorevolezza è figlia della forza delle sue idee. Accoglie ogni progetto di ricerca o d’impresa come fosse il suo, in una complicità infinita tra lui e le sue creature, consapevole che successi e benefici verranno raccolti da altri. Puoi parlargli di tutto senza mai trovarlo impreparato, gioca e si ispira con la tecnologia senza che questa sia mai capace di sovrastarlo. Luca è un maker dentro, progetta i giocattoli per le figlie invece di acquistarli, è un grande papà e il miglior collaboratore che ogni contesto possa mai selezionare. Immagini e citazioni di questo post derivano dal libro “Together is better”, prestatomi da Luca come fonte di ispirazione.

Giuseppe Modeo - Giuseppe è un designer sopraffino. Un designer sopraffino lo si riconosce in due modi. Il primo è quando ti rendi conto che lui fa ciò che avresti fatto tu. È difficile, per un designer, spesso perso nella sua idea narcisistica di possedere qualità e sensibilità estetiche superiori alla media, riconoscere che un collega designer sia arrivato a quel compromesso progettuale cui non aggiungeresti nulla, globalmente armonico e quindi non più modificabile. Il secondo motivo è quando, il designer, non si fa vincere dal tempo e dalla fretta, ma lavora, lima, ripulisce, annienta e ricrea fino a quando non sa di aver raggiunto ciò che l’emisfero creativo gli aveva pre-figurato in partenza. Il lavoro di Giuseppe, da questo punto di vista, è il tipico esempio di come il design sia a tutti gli effetti una componente del processo di ricerca. Giuseppe potrebbe lavorare in qualsiasi studio di design di fama internazionale. Può spingersi anche oltre, se lo desidera. Il giorno del suo primo colloquio al CETMA, alla domanda se fosse in grado di utilizzare i software di modellazione in uso nella divisione, rispose: “Faccio parte di quella generazione cresciuta nel 3D, non mi spaventa dovermi cimentare con l’uso di questo o di quel software”. Una risposta di questo tipo generò due considerazioni: non è un candidato debole di fronte alla sfida, non è un candidato troppo spavaldo di fronte allo scenario incerto. Materiale per i posteri e per le generazioni che ancora non sanno approcciarsi al mondo del lavoro.

Alessandro Balsamo - Alessandro, parafrasando San Paolo, possiede il silenzio, la compostezza e la capacità, ma di tutte più grande è la capacità. Può stare in silenzio per giorni prima di chiamarti e mostrarti un avanzamento delle attività spesso inatteso. Il suo operato è figlio del metodo, ha una testa da ingegnere e un cuore da designer, veste ogni suo prodotto con cura, spingendosi a volte verso soluzioni così espressive da sorprenderti, soluzioni caratterizzate da un accentuato dinamismo delle forme che potrebbero entrare di diritto in correnti come il bolidismo. Alessandro è figlio di un percorso che parte da lontano, dall'alta formazione, passando per il tirocinio in azienda fino ad oggi. Un percorso rappresentativo di come le persone possano crescere in un contesto, sposandone le finalità e affinando ogni giorno di più le proprie competenze verso uno standard qualitativo condiviso e uniformato.  Si è sempre trovato a gestire, per scelta o per caso, azioni di una certa entità tecnica ed economica. Il suo sconforto iniziale di fronte alla vastità e alla criticità dell'impegno, si tramuta con il tempo in passione. Mi piace osservare il suo compiacimento nel mostrare la soluzione che ha ideato, compiacimento che spesso sconfina in quel "E ti dirò di più..." che porta il cliente ad uno stadio di soddisfazione superiore, riconoscente per il semplice fatto che non ci si è fermati al compitino o alla mera traduzione in attività dell'obbligo contrattuale. Alessandro ama i sistemi audio, spero che il tempo possa amplificare la voce dei suoi sogni. 

Angelo Gianfreda - Angelo è arrivato in un giorno di maggio. Come un dono inatteso posato sulla soglia di casa. Il suo entusiasmo nell'approdo al CETMA mi ha aiutato a ricordare come, per tanti progettisti, questo sia ancora un luogo ambito, un punto di arrivo per pochi privilegiati. Angelo soffre l'esistenza di attività sospese, lavora senza sosta, non si tranquillizza fino alla consegna. Ha un desiderio costante di migliorarsi, qualità che dovrebbe possedere ogni persona, ma sicuramente essenziale per un ricercatore o per chi viene chiamato a trasformare idee in prodotti concreti e innovativi. Angelo farà strada. Questo è il mio migliore augurio per lui.



Standing on the shoulders of star-studded design resources. Un grazie speciale va inoltre alle persone con le quali ho avuto il piacere di collaborare in oltre dieci anni di design al CETMA: Giovanni Giodice, Umberto Fioretti, Cinzia Dinardo, Glenda Torres Guizado, Vito Cuoccio.

"A boss has the title. A leader has the people". (S.Sinek, Together is better)

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mercoledì 8 novembre 2017

European playgrounds: l'importanza di giocare in città


Musica consigliata: Basket Case, Green Day

Un recente articolo sulla rivista di Alitalia “Ulisse” (Geri De Rosa, Ottobre 2017) mi ha fatto riflettere sul ruolo dei campi da gioco nelle città, ma soprattutto ricredere sulla bellezza e sull’importanza dei playground all’interno dei centri antichi. Negli ultimi decenni, i progetti di recupero e valorizzazione dei centri antichi (per chi, fortunatamente, è stato amministrato da persone competenti e rigorose) sono stati basati quasi esclusivamente sulla preservazione o sulla riconduzione ad uno stato, spesso semplicemente presunto o ipotizzato, di strade e architetture prima che la contemporaneità ne modificasse alcune peculiarità distintive. In altre parole un ritorno a volumi, materiali e colori la cui selezione giura rispetto per il contesto storico e territoriale di partenza, ma al tempo stesso lo serve e lo alimenta tecnologicamente grazie a meticolose operazioni sotto-traccia per nascondere impianti e condutture. In linea con questo approccio, soprattutto in Paesi come l’Italia, difficilmente sono stati realizzati impianti sportivi attrezzati all’interno di mura, nei cortili dei palazzi o ai piedi di simboli come castelli e cattedrali. Meglio decentralizzare lo sport e le infrastrutture, sempre più tecnologicamente avanzate, necessarie per la sua pratica. Un tabellone, una rete, un gruppo di fari o di seggiolini, una pavimentazione sintetica, sono elementi che tuttora, agli occhi della maggioranza della popolazione, sembrano in evidente contrasto con l’idea di passato e di armonia garantita da pietre, legno e mattoni.

Per questo motivo la presenza di un campo di basket ai piedi del Castello di Oria non ha mai suscitato in me alcuna reazione d’interesse, né tanto meno ho mai pensato ad una sua possibile ricostruzione. Meglio alberare e aprire nuovi varchi turistici ai piedi delle torri. Questa sensazione nasce dall’idea che un turista sia più propenso ad ammirare un edificio di valore storico e culturale in un contesto basso-impattante come quello offerto dalla natura organizzata in un parco/giardino, piuttosto che apprezzare giovani nel pieno delle loro doti fisiche e agonistiche sfidarsi ai piedi del castello svevo. È come se la pratica sportiva fosse un elemento di disturbo, per i suoi ritmi, per i suoi palloni sintetici, per i suoi schiamazzi, inappropriata al pari di un condizionatore installato su un prospetto, di cavi elettrici penzolanti, di infissi in alluminio o di automobili parcheggiate selvaggiamente.

L’articolo di Ulisse, dunque, mi ha fatto ricredere. Non tanto per l’importanza sociale che rivestono i playground nelle città di oggi o per la loro capacità di generare talenti riconoscenti nei confronti di quegli spazi urbani dove, a volte al di fuori di ogni regola sportiva, hanno saputo imporsi e farsi strada. Senza il dominio degli avversari di periferia, in tanti non sarebbero arrivati ai canestri dell’NBA. Questo il messaggio dell’autore.

Mi ha fatto ricredere sulla possibilità di rivitalizzare i centri antichi (senza ricorrere alle solite sagre o rievocazioni) con la restituzione degli spazi di aggregazione ai suoi giovani abitanti, “costretti” a muoversi al contrario, ovvero dalle periferie verso il centro, per dare sfogo alle proprie passioni sportive. Frank Deford, un giornalista di “Newsweek”, osservò che l’elemento più magico dello sport popolare era sempre stato la “sua essenziale democrazia.[…] L’arena fatta per adunare uno spazio pubblico, una piazza del villaggio del XX secolo dove poter vivere tutti insieme un’emozione comune”. In questa operazione la progettazione architettonica ha un ruolo fondamentale. Può sapientemente mimetizzare (vedi immagine di anteprima dei campi di basket tra le mura di Dubrovnik) o creativamente esasperare come nel playground realizzato da prodigiosi street artist francesi nel quartiere parigino di Pigalle (vedi immagine a fine post). Questo è l’unico vero punto. Affidare questi progetti a chi, superiore in sensibilità, mette in campo le proprie qualità per armonizzare queste aree con lo spazio circostante, superando con maestria i limiti imposti dalle regole sportive per imporre nuovi standard di interazione con il gioco e con lo spazio. Se guardo molte infrastrutture del nostro meridione, provo ribrezzo nell'osservare il loro stato di abbandono o rassegnazione nel vedere i giovani evitare questi spazi perché incapaci di sentirli propri, con la conseguente assenza di fruizione e di tutela. Fiumi di denaro pubblico mal speso, progetti spesso fuori mano e privi di qualsiasi identità. Non possiamo pensare di mettere due tabelloni e dipingere due linee per terra per dire di aver realizzato un campo di basket. Colpa dei capitolati, colpa degli appalti, colpa delle forniture, colpa di chi antepone il ribasso economico a qualsiasi approccio qualitativo, simbolico, attrattivo e funzionale.

Un centro antico senza giovani muore e si auto-condanna allo stato di bomboniera se va bene, di parco a tema se va male. A volte è più artificiale uno spazio dove tutto è dannatamente al proprio posto di uno spazio dove il vivere quotidiano lascia in qualche modo le sue impronte, siano esse il profumo del ragù, lenzuola stese ad asciugare o pedali di motorini appoggiati sul cordolo di un marciapiede. Oggi riconosco che giocare a pallacanestro ai piedi del Castello di Oria sarà stata sicuramente un’esperienza unica nel suo genere. Uno sport d’oltreoceano esportato della guerra ha avuto l’onore di essere praticato sullo spiazzo più alto della città. Probabilmente chi ha giocato in questo luogo avrà assaporato quel mix irripetibile di vento in faccia, abbraccio protettivo della storia e adrenalina di gioventù che nessun palazzo dello sport è in grado di restituire allo stesso modo. La pallacanestro è uno sport verticale. Uno sport pensato per uomini lunghi in cerca di uno spazio aereo libero. Uno sport che, se giocato all’aperto, ti costringe in qualche modo a guardare cielo e nuvole. A Oria, un tempo, ai piedi delle torri angioine, simboli verticali della nostra città, tutto ciò è stato possibile.

"Ovviamente gli stadi sono soprattutto luoghi dove le persone si radunano per assistere a eventi sportivi. Quando i tifosi vanno allo stadio di baseball o all'arena, non lo fanno principalmente per vivere un'esperienza civica...Il carattere pubblico dell'ambientazione impartisce un insegnamento civico: che siamo tutti insieme e che almeno per poche ore condividiamo un senso di appartenenza e di orgoglio civico. Nel momento in cui gli stadi assomigliano meno a luoghi storici e più a cartelloni pubblicitari, il loro carattere pubblico svanisce. Così accade, forse, ai legami sociali e ai sentimenti civici che essi ispirano". (M.J.Sandel, Quello che i soldi non possono comprare)


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